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Dolmen - 1976

“In quegli anni il clima era ancora particolarmente delicato, sia a livello politico che economico e doveroso era realizzare un’opera a basso, bassissimo costo.

Questa difficoltà ed il concetto antiretorico di monumento fu ciò che mi spinse a progettare un Dolmen. Con l’aiuto di amici, in particolare di Lodovico Muratori del direttivo ANPI, dell’avvocato Felice Trabacchi allora Sindaco di Piacenza e di Paolo Badini che donò le pietre, mi accinsi a comporre l’opera.

Sebbene soggetto a critiche, anche molto aspre, il Dolmen s’ inaugurò il 25 aprile 1976. Ritengo il Dolmen è un simbolo forte, un segno senza tempo, legato sì al mondo celtico ed al mistero metafisico, ma soprattutto vicino alla Liberazione.

Pietre che “partecipano” al territorio, al reticolato urbano ed umano riconducibile alla funzione dei ricordi e dei pensieri. Pietre che segnano la sepoltura dei morti.

Pietre che sono anche soglia e base dell’architettura, metafora occidentale della porta dell’arte, metafora della tomba, metafora di libertà. 

Un Dolmen amico, che appartiene al mondo dell’immanenza e non della trascendenza, legato all’uomo e vicino alla terra, alla casa, al mondo rinnovato della pace. Pensato e studiato per una collocazione “aperta”, verso est, in una misura architettonica ben inserita.

Sono da sempre convinto che un’opera pubblica deve essere qualcosa che in primo luogo identifica il territorio nel quale viene collocata, sia questo centro storico o periferia. In particolare “ opera” che possa – nel tessuto urbano - essere ricordata e vissuta come ci suggeriscono i nostri monumenti equestri del Mochi in Piazza Cavalli, il monumento a Como di Mario Radice, il monumento di Arnaldo Pomodoro in piazza Diaz a Milano, la colonna Traiana a Roma, ed infiniti altri segnali.

In questo caso le autorità cittadine si sono fatte carico di una promozione colta e sensibile, inserendo nel “decumano” un elemento riconoscibile e di senso, come norma anche di orientamento e suddivisione della città.

Oggi e per le generazioni future vedo il Dolmen ancor meglio collocato nel “manto” cittadino come in un reticolato epidermico umano. Un punto emozionale aggiunto ad altri, in sintonia con l’uomo che vive non soltanto come persona fisica, bensì come agente e strumento delle proprie emozioni e delle proprie azioni. Opera quindi come logos, linguaggio, impronta. Luogo per eccellenza di formazione, area di maturazione e di sviluppo. Un simbolo che partecipa alla nostra volontà di accrescimento, anagrafe visiva, cantiere e testimone del “fare” umano.”

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